lunedì 7 aprile 2014

Il genocidio in Ruanda, il genocidio del ventesimo secolo a unagenerazione dopo.

 Mi dispiace non poter essere tra voi come era mio desiderio per rendere omaggio alle vittime del genocidio del 1994 in Ruanda e ricordare che quel genocidio ci riguarda tutti, poteva essere evitato e noi siamo stati a guardare.
                                                                                                 Silvana Arbia

Venti anni tanti o pochi per la storia dell’umanitá?

Si direbbe pochi per rimarginare le ferite, si potrebbe dire tanti, se la generazione “dopo” non ne ha conoscenza e  senza conoscenza non c’è nulla da ricordare, e se non si ricorda, il rischio che la tragedia si ripeta sará molto elevato.

Al di lá delle celebrazioni doverose, e della compassione per le vittime, cui va il mio costante e rispettoso ricordo, a vent’anni da una tragedia insensata e assurda, abbiamo l’obbligo di chiederci quale impatto ha avuto e ha il genocidio del 1994 in Ruanda nella svolta storica tra una civiltá giuridica di diritto penale statale a quella di una nuova, rivoluzionaria civiltá che pone al centro dei suoi interessi la punizione dei responsabili di crimini internazionali, anche quando le giursidizioni statali non possono o non vogliono perseguire quei crimini.

Si dice che la Corte penale internazionale è al centro di un sistema di giustizia penale internazionale in evoluzione, un progetto ancora in costruzione, il cui effettivo funzionamento puó essere in ogni momento intralciato e bloccato per interessi che non hanno niente a che vedere con la giustizia.

Il Tribunale Penale internazionale per il genocidio del Ruanda, TPIR, creato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dopo la consumazione di crimini gravissimi nei cento giorni dalla notte del 6/7 aprile, ha stabilito principi fondamentali del sistema di giustizia penale oggi in vigore.
Nel settembre 1998 ha emesso la prima sentenza di un’istanza internazionale sul crimine di genocidio, definendone gli elementi costitutivi e stabilendo che anche lo stupro, se ricorrano certe condizioni atte ad annientare in tutto o in parte il gruppo etnico, puó costituire genocidio.

Lo stesso Tribunale ha individuato i responsabili di piú alto rango, gli organizzatori, le autoritá militari, civili e religiose, che invece di proteggere la popolazione, ne hanno ordinato la eliminazione.

Grazie a testimoni coraggiosi è stato possibile ricostruire una parte di veritá;  sappiamo perché e come è stato preparato il genocidio, quale soluzione finale, manipolando la gente e implicandola nella mattanza.
Tutti si sono messi a pulire le “case” dagli “scarafaggi”, dai “serpenti” per costruire un buon futuro per il paese, con promessa di benessere e prosperitá.

Il genocidio è un crimine che si puó commettere anche con la sola istigazione a condizione che sia diretta e pubblica e, i media e le autoritá che facevano discorsi nelle piazze, nei mercati e in aree accessibili al pubblico, diffondevano discorsi infiammatori, cui nessuno avrebbe potuto resistere.

Chi è il nemico?, domanda che anche oggi, nel nostro tempo che pretendiamo essere sviluppato, costituisce un elevato rischio, con la possibilitá di scaricare su individui e o gruppi con certe caratteristiche, la responsabilitá dei mali che sperimentiamo.
Se oggi rompiamo il silenzio rispettoso per le tantissime vittime del 1994,  la ragione deve essere una sola: rifiutare l’esposizione delle popolazioni civili ai rischi di crimini internazionali come il genocidio, i crimini contro l’umanitá e i crimini di guerra e agire per prevenirli.

La crisi economica, la povertá, il potere a tutti i costi, sono situazioni che possono esistere in qualsiasi angolo del mondo, pertanto dobbiamo vigilare e agire senza alibi.

Non possiamo stare a guardare come abbiamo fatto durante i mesi terribili da aprile a luglio 1994.

Esprimo la mia più profonda compassione per le vittime,e i sopravvissuti, e aggiungo la mia voce agli organizzatori e ai partecipanti a questa importante celebrazione perché la memoria rimanga viva e attiva per evitare che la pace sia messa in pericolo. 

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